In 21 anni di calcio a 5 ho incrociato tante storie di vita, al di là di un rettangolo di gioco, ragazzi che improvvisamente si sono dovuti fermare per combattere un male improvviso. Mai come in questi giorni, le testimonianze sono importanti, parole che arrivano come macigni ed esempi. Noi combattiamo contro un nemico invisibile, lo dobbiamo fare rispettando semplicemente delle regole, lo dobbiamo fare con la legittima paura di ogni essere umano quando la barriera tra la vita e la morte è rappresentata da una speranza o, nel nostro caso, da un comportamento. Sì, perché c’è chi ha superato prove ben più grandi della privazione della libertà.
Eduardo Mancusi è un ragazzo che ho conosciuto prima di sfuggita sulle tribune di Pratola Serra e poi con una lunga chiacchierata di una sera, davanti ad una birra artigianale. In mezzo, quello sguardo di complicità delle persone semplici, dirette, vere con cui l’empatia è immediata, la curva del dubbio lascia il posto a un rettilineo di emozioni pure da prendere a tutta velocità, perché la vita scorre così, rapidamente. Mi ha scritto la sua storia, ho pensato al passaggio in cui descrive i genitori con tuta, guanti e mascherina in sala operatoria ad osservarlo dopo l’operazione, ho pensato che ce l’ha fatta riassaporando dopo ogni gesto del quotidiano. Ho pensato alla solitudine di chi, prima di entrare in sala operatoria, sa che potrebbe anche non farcela. Ho pensato alla solitudine di chi muore di Covid 19 senza nemmeno il saluto di un parente. E ho pensato alla nostra solitudine di questi giorni che ha come confine il perimetro di casa. E forse, dopo, tutto questo ci insegnerà qualcosa. Il racconto di Eduardo.
“Era il 13/06/13, il giorno di Sant’Antonio da Padova, che le leggende dicono faccia 13 miracoli al giorno, quel giorno uno l’ha riservato per me. Era giovedì e la sera avevo la partita con i ragazzi della palestra di pugilato che frequento ancora oggi.
Durante la partita ricevo un piccolo colpo con la mano sotto al mento, da lì inizia a girare la testa, mi inizia a mancare l’equilibrio ed arrancando cerco di raggiungere la panchina. Intanto uno dei ragazzi mi bagna la testa perché crede sia il caldo, da lì parte tutto. Il mio braccio destro inizia a fare movimenti scorrelati, ad un tratto sento la lingua che se ne scende giù in gola ed i polmoni che si attaccano non avendo più aria. Guardo tutti mentre mi sto per accasciare a terra, sento le mani del mio istruttore che mi prende da dietro per non farmi cadere, e penso per me è finita qui…sono morto. Da lì non ricordo più nulla perché mi risveglio nell’ambulanza. Mi raccontano che il mio cuore si sia fermato per una decina di secondi per poi ripartire di nuovo. Intanto, per fortuna, il mio istruttore mi tira la lingua fuori insieme all’aiuto di una persona che prontamente si è scaraventata in campo.
Mi sveglio nell’ambulanza, quelle sirene, quel vetro opaco dove non si vede nulla ed io che dico “voglio scendere, fatemi scendere”, ma il tempo di cercare di alzarmi sulla barella che cado perché sono come un bambino che non ha equilibrio. Mi chiedono un recapito telefonico ed io riesco a ricordare quello di mamma.
Arrivo al pronto soccorso a Nola, mi fanno la TAC e da lì si nota una macchia nera. Mi rilasciano stesso la sera, e fortunatamente l’infermiera che firma le dimissioni dice ai miei genitori che la mattina seguente dovevo essere portarlo d’urgenza a Benevento al Rummo oppure al Loreto Mare.
E così inizia la corsa al Rummo, nel pronto soccorso attendo il mio turno e mi visita un dottore (col quale ora siamo amici), il tempo di guardarmi e mi dice mi devono ricoverare. Io non ci sto, dico che non è possibile, cerco di fare opposizione al che lui mi dice “se vuoi stare bene devi ascoltarmi”.
Faccio un giro di telefonate ed un mio amico che ha la mamma dottoressa mi dice di non spostarmi dal Rummo perché c’è un grande neurochirurgo, Giuseppe Catapano. Resto, mi ricoverano ed io in meno di 12 ore mi ritrovo a 26 anni da un campo di calcio ad un letto d’ospedale.
Nei giorni successivi mi fanno gli accertamenti di routine e la diagnosi è di un meningioma. Quel bastardo però non è in un posto semplice da rimuovere e quindi c’è bisogno di un altro esame, l’“angiografia”…e chi sa scorda. Partono con questa sonda dal bacino e sento sta serpentina che si muove dentro me per poi arrivare al cervello dove devono iniettare il contrasto. Vabbè abbiamo superato anche questa e mi portano in reparto. Manca l’ultimo passo, il colloquio con il neurochirurgo. Mi chiama e con i miei genitori andiamo da lui, nel suo studio. Lui con fare deciso, con un teschio in mano, mi spiega quello che ho e dice che devo operarmi. Ovviamente io, senza esitazione, do il consenso. Va bene facciamolo (chi cavolo poteva capire la complessità dell’operazione). Ma lui, prima di concludere mi dice: “Eduardo non mi hai chiesto una cosa”. Al che basito chiedo cosa e lui mi dice che non gli ho chiesto cosa rischio con questa operazione. Gli pongo la domanda e mi spiega che la massa ce l’ho già da qualche anno e si trova sulla parte del movimento dell’emisfero sinistro, quindi rischio problemi di mobilità. Vabbè dottore ma quanto rischio? Ed ancora oggi la sua risposta mi risuona nella mente “è come una manopola di una radio tanto puoi perdere 0, tanto puoi perdere 100”. Ed io al dottore parlo deciso che non ci sono alternative, quindi di procedere.
Purtroppo ci sono casi più urgenti e mi mandano a casa, per poi richiamarmi dopo una settimana. Decido di non cercare nulla su internet perché avrei aggiunto solo ansia. Ricordo però ancora quella telefonata: “Signor Mancusi domani si deve ricoverare”.
All’indomani vado in ospedale, mi danno la stanza e la sera mi consegnano una spazzola contenente betadine con la quale devo lavare la testa prima di dormire. Lavo la testa, mi metto a letto, chiamo i miei per salutarli e scrivo il mio stato su whatsapp che per me è diventato il motto della mia vita “Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso. (Nelson Mandela)”…mi ripeto che posso farcela… devo farcela.
La mattina arrivano i miei in ospedale ed alle 9:00 mi chiamano, è il mio turno, è ora di scendere in campo. Saluto mamma e papà, mi mettono sulla barella e mi portano in sala operatoria. Là un dottore dell’equipe del professor Catapano, un ragazzo umilissimo che ancora oggi mi segue mi stringe la mano, mentre la dottoressa sta per iniettarmi l’anestesia. Mi dice che andrà tutto bene ed io sento un fuoco nel braccio e cado in un sonno profondo.
Credevo che mi sarei svegliato stesso in serata ma invece non è così, trascorro la notte in rianimazione, i miei genitori raccontano che per vedermi gli hanno fatto indossare una divisa, guanti e mascherina…solo loro possono descrivere la sensazione di vedere un figlio pieno di tubi e lavaggi attaccati ovunque.
La notte cerco di svegliarmi ma il sedativo fa effetto ed io apro gli occhi a metà, tutta la notte sento una presenza al mio fianco, come una presenza fisica ed io sono sicuro che con me c’è il mio nonno materno anche se lui è volato in cielo da un po’.
In prima mattinata mi sveglio, la prima cosa che faccio è quella di muovere la gamba destra e dare calci al letto, capisco che forse così male non è andata perché riesco a muovere la gamba e braccio destro. Gli infermieri se ne accorgono e mi svegliano, mi tolgono i tubi, puliscono la gola e tolgono qualche lavaggio per poi fare una tac. Dopo qualche ora mi portano in reparto, cazzo sono vivo e rivedo tutti i miei cari ce l’ho fatta.
Dicono che non posso alzarmi per giorni e che forse necessito di riabilitazione. Passano i giorni ed io inizio a fare i primi passi, dopo qualche giorno cammino già da solo, la voglia di stare bene è tanta e dopo 6 giorni sono già a casa.
Qui inizia il periodo più difficile, non riesco a stare sveglio per più di mezz’ora al giorno, mamma mi sveglia solo per farmi mangiare. Passa una settimana e sto bene, inizio ad alzarmi, l’infermiera mi viene a cambiare la medicazione, finché non vado a togliere i punti. Mi dicono che devo fare controlli periodici per monitorare il tutto.
Ad oggi posso dire che da quel momento la mia vita è cambiata radicalmente. Ho imparato ad apprezzare ogni istante della mia vita, a ringraziare il Signore per ogni giorno che mi concede, a vedere il mondo con occhi nuovi, con occhi che guardano cose che prima non ignoravo…nonostante le varie sofferenze dico che la vita è bella davvero. Da dopo questo evento ho conosciuto persone speciali che mi hanno donato grandi emozioni come Massimo Abate che mi ha aperto le porte al mondo del futsal. Mi sono un attimo allontanato ma vorrei tornarci. Ho sconfitto il meningioma in una sala operatoria, pensando di non svegliarmi, devo essere sempre sotto controllo. La solitudine tra la vita e la morte è ben altro che la solitudine di una casa, quella a cui siamo costretti oggi per non alimentare il contagio e per evitare altri decessi. Bisogna rispettare le regole e dopo apprezzeremo ogni istante della nostra vita”.